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Rolling Stone Italia
1957-2023
L’uomo che ha preso a calci in culo il folk: un ritratto di Shane MacGowan
Era un poeta punk, il capitano farfugliante di una ciurma di pirati, un santo bevitore, un ammazzapuristi, un letterato, un autore di ballate stropicciate, un nobile perdente. Il nostro tributo a uno dei grandi DI ALFREDO MARZIANO
Milano, 1988. La casa discografica Ricordi, che distribuisce in licenza i dischi dei Pogues in Italia, organizza una giornata promozionale per la band angloirlandese invitando un gruppo di giornalisti a incontrarla nella sua sede storica di via Berchet. Si apre la porta della grande sala riunioni, Shane MacGowan è lì accasciato, solo, con la testa tra le mani. L’ufficio stampa fa le presentazioni di rito, lui – già ubriaco fradicio di primo pomeriggio, o forse perso in chissà quali pensieri – non ci degna di uno sguardo limitandosi a bisbigliare un «fuck you!». Capita l’antifona, giriamo tutti i tacchi dirigendoci verso i più disponibili Spider Stacy, James Fearnley e Terry Woods, altri membri della band che pochi mesi prima aveva sfornato il suo capolavoro, If I Should Fall from Grace with God.
Da ieri Shane non c’è più, a 65 anni e dopo una vita intensa e sregolatissima è uscito davvero dalla grazia di Dio. Le foto che la moglie Victoria Mary Clarke postava periodicamente dall’ospedale in cui era stato ricoverato per una encefalite virale con complicanze assortite (durante la degenza aveva contratto anche il fuoco di Sant’Antonio) non facevano presagire nulla di buono, anche se giusto una settimana fa aveva fatto ritorno a casa, in Irlanda. L’ultima tappa di un calvario che si prolungava da anni, e che dal 2015, dopo una frattura al bacino, lo aveva costretto su una sedia a rotelle. Eppure MacGowan, che aveva cominciato a bere e a fumare quando ancora portava i calzoni corti e mai aveva manifestato la volontà di smettere, sembrava indistruttibile, un Highlander acciaccato e macilento che non voleva saperne di arrendersi e alzare bandiera bianca.
Chi lo ha visto dal vivo o anche solo in fotografia, chi ha ascoltato le sue canzoni non può averlo dimenticato. Nato in Inghilterra da genitori irlandesi, cresciuto in campagna nella contea di Tipperary e trasferitosi a Londra a seguito della famiglia, con la capitale inglese aveva sviluppato da subito un rapporto di amore e odio diventando uno dei volti più riconoscibili ed emblematici del punk inglese. Soprattutto quando i giornali locali, sotto il titolo “Cannibalismo a un concerto dei Clash”, pubblicarono una foto del suo volto insanguinato in seguito a un morso assestatogli al lobo destro da Jane Crockford, in seguito bassista delle Mo-dettes (le orecchie a sventola, lo sguardo stupefatto e allucinato e i denti devastati dalla carie erano gli altri ingredienti perfetti per renderlo “the face of 77”).
Era il classico dropout con la tipica biografia da ribelle antisociale: zuffe di strada, pillole di ogni tipo e trip di LSD, “fiumi di whiskey” (il titolo di una sua canzone) e di birra, sospensioni e prematura espulsione da scuola. Eppure non era un disperato votato al no future: solo uno che voleva godersi la vita senza freni, tenere il piede premuto a tavoletta senza allacciarsi le cinture. Avido lettore, fin da piccolo si era appassionato alla storia d’Irlanda indignandosi per i soprusi subiti dai suoi avi. Aveva studiato gli scritti politici di Marx e Trotsky cercando di conciliarli con la sua fede cattolica, adorava le opere di James Joyce e James Clarence Mangan ma soprattutto di Brendan Behan in cui si rispecchiava per lo spirito ribelle e la propensione a sbronze colossali. Gli sarebbe tornato tutto utile, e avrebbe fatto la differenza, nel momento in cui cominciò a fare ascoltare in giro le sue canzoni. Prima con l’effimero gruppo punk dei Nipple Erectors ma soprattutto, poco dopo, con i Pogues (anglicizzazione di un’espressione gaelica che significa “baciami il culo”).
Nel loro primo LP, Red Roses for Me, c’era The Auld Triangle, accreditata proprio a Behan, accanto a composizioni di Shane che nelle melodie e negli arrangiamenti profumavano (anzi: puzzavano) di Irlanda e di folk celtico, a motivi tradizionali che MacGowan conosceva e amava fin da bambino ma che ora si divertiva a prendere a calci in culo per dare una scossa all’ambiente e sfogare la rabbia repressa (i tempi, finalmente, consentivano di farlo alla luce del sole e persino nei dischi).
Quello che è poi diventato un paradigma musicale noto come folk-punk allora era un linguaggio nuovo, irresistibile e irriverente che scandalizzava i puristi ed entusiasmava i kids, mentre Shane cantava le strade buie di Londra e la Dirty Old Town dipinta da un baluardo della tradizione come Ewan MacColl, le ultime ore sul letto di morte dell’eroe mitologico irlandese Cú Chulainn, avventure sessuali e risse da bettola, ubriaconi, fuorilegge e tragedie marine. Era il capitano farfugliante di una ciurma di pirati che si esaltavano nelle frenetiche rincorse tra chitarre, mandolini, banjo, tin whistle, fisarmoniche e batterie (nella baldoria alcolica, travolgente e spagnoleggiante di Fiesta partiva anche una frecciata velenosa in direzione di Elvis Costello, produttore dell’album Rum, Sodomy and the Lash e della sua nuova moglie nonché ex bassista del gruppo Cait O’Riordan).
Ma era anche e soprattutto nelle ballate come A Rainy Night in Soho che Shane, ringhiando e smozzicando le parole, dispensava la sua grazia scomposta e il suo stropicciato romanticismo, stringendoti il cuore quando con desolata accoratezza raccontava la ferocia insulsa della guerra (And the Band Played Waltzing Matilda di Eric Bogle) o lo spirito irrequieto e vagabondo di chi vaga ai margini della società inseguendo l’amore e un paio di occhi castani. A Pair of Brown Eyes è diventato un evergreen, il suo classico più famoso naturalmente dopo Fairytale of New York, che di If I Should Fall from Grace with God resta il pezzo forte e il sigillo di immortalità. Cambia l’ambientazione – l’America, stavolta – ma non i personaggi: barboni e diseredati che imprecano al cielo e alla luna, si affibbiano i peggiori epiteti eppure si stringono in un abbraccio che non vorrebbe mai finire, proprio come in una favola vista dalla parte dei perdenti.
Rimane la più bella, la più struggente, la più anticonvenzionale canzone di Natale che sia mai stata incisa, baciata anche da un imprevedibile ritorno di fiamma, in Irlanda e in Inghilterra, ogni volta che le festività di fine anno si riavvicinano Era «la nostra Bohemian Rhapsody», diceva lui, coinvolgendo in quell’aggettivo possessivo i Pogues e la sua indimenticabile partner di allora, Kirsty MacColl, la figlia di Ewan che alla fine del 2000 morì per un assurdo incidente acquatico in Messico. Quel tragico episodio aveva tolto a Shane la voglia di cantarla: ma dall’associazione con quella canzone ora, meno che mai, potrà liberarsi, anche se con i Pogues e poi con i Popes ha fatto altri bei dischi, altre canzoni degne di essere ricordate.
Nel bellissimo documentario dedicatogli due anni fa da Julien Temple, Crock of Gold, confessava la speranza di essere ricordato come un salvatore della musica tradizionale irlandese, ma ha fatto molto di più: diventando «uno degli autori più importanti del secolo» (nelle parole di Joe Strummer, suo amico intimo come Pete Doherty e Johnny Depp), impiegando ogni goccia di alcol ingurgitato (o almeno è bello pensarlo) per distillare poesia, sondando i bassifondi per elevare il suo e il nostro spirito in alto, oltre le miserie terrene.
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